Multiproprietà aspetti controversi

Lo scorso 29 ottobre ha fatto notizia la presentazione di una denuncia nei confronti di diversi soggetti che si sono alternati nella gestione di una multiproprietà in Trentino Alto Adige.

In particolare, i carabinieri della Stazione di San Vigilio di Marebbe hanno denunciato per peculato ed omesse comunicazioni all’Autorità di P.s. sei persone che, a partire dal 2016 hanno gestito una multiproprietà nel comune di San Vigilio.

Gli illeciti contestati vanno dal mancato versamento della tassa di soggiorno (per circa 30.000 euro) alla mancata comunicazione delle generalità dei clienti che hanno soggiornato presso la struttura turistica (ex art. 109 TULPS).

L’episodio richiama all’attenzione della cronaca gli “spettri” legati al concetto di multiproprietà e va ad iscriversi di diritto nel “libro nero” della multiproprietà, che evidentemente si aggiorna con un nuovo capitolo: quello del mancato versamento della tassa di soggiorno.

Quanto alla multiproprietà, va ricordato (v. Filippo M. Salvo, Diritto e pratica del turismo) che con il termine “multiproprietà” si indica un contratto in base al quale l’acquirenteconsumatore acquista, dietro pagamento del prezzo, il diritto di godere in via turnaria di un bene immobile o mobile (roulotte, natanti), limitatamente a determinati periodi di tempo.

Tale diritto è normalmente: perpetuo; cedibile a terzi per atti inter vivos e mortis causa; corrispondente al diritto di proprietà, in comunione con altri; formale (è necessario stipulare un contratto in tutto e per tutto conforme al formulario fissato dal Legislatore). La natura di tale diritto è stata lungamente dibattuta. Oggi si ritiene che la multiproprietà vada ricondotta ad una specifica ipotesi di comunione (art. 1110 Cod. Civ.) o, secondo altri, ad un diritto reale “speciale” o atipico rispetto a quelli disciplinati dal Codice civile .

La disciplina del contratto di multiproprietà origina dalla la direttiva 94/47/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 ottobre 1994, che, al fine di tutelare il consumatore, prevedeva una serie di obblighi di informazione e trasparenza.

Oggi la normativa di riferimento è rappresentata dal d.lgs del 6 settembre 2005, n. 206, il Codice del consumo, per come sostituito dal d.lgs. 23 maggio 2011, n. 79, art. 2. In particolare, il novellato art. 69 del Codice del consumo dà la seguente definizione del contratto di multiproprietà: “un contratto di durata superiore a un anno tramite il quale un consumatore acquisisce a titolo oneroso il diritto di godimento su uno o più alloggi per il pernottamento per più di un periodo di occupazione”.

In quanto contratto turistico (e non di investimento) anche la multiproprietà postula il pagamento dell’imposta di soggiorno, la quale, dunque, deve essere versata all’Erario, nei tempi e nei modi di legge.

Da un punto di vista ontologico, l’imposta di soggiorno è una diretta applicazione del principio “chi inquina paga” ed è finalizzata a scongiurare le esternalità negative del turismo, in specie non stanziale. L’imposta in questione è uno  dei  pochi  strumenti  di  autonomia  impositiva  rimasto  alle amministrazioni comunali ed è stata introdotta con d.lgs. n. 23 del 14 marzo 2011.

In linea di principio detta imposta dovrebbe essere finalizzata ad attività di restauro e manutenzione dei beni culturali siti nel territorio comunale, anche se, su tale “vincolo di destinazione” è recentemente intervenuto il Consiglio di Stato (sez. V), che, con sentenza 23 novembre 2018, n. 6644, affermando il principio per cui l’imposta è dedicata alle municipalità ed è connessa con il settore dei servizi pubblici locali (art. 112 e ss. d.lgs. 267/2000 – Testo Unico degli Enti Locali). L’imposta è dunque finalizzata a “promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali” (art. 112 cit.), non necessariamente in modo perfettamente aderente a finalità turistiche, ma anche più generali, purché locali.

Venendo al caso di cronaca, l’imposta in questione deve essere incassata dal gestore o dal proprietario, per poi essere versata al Comune, in mancanza di che può configurarsi la fattispecie p. e p. dall’art. 314 del codice penale (peculato).

Anche in ipotesi che possono apparire marginali o quantomeno “non professionali” nella gestione dell’immobile a fini turistici, dunque, va pienamente rispettata la normativa in materia di tassa di soggiorno. Il rischio è che si attivino meccanismi derivanti dallo scarso raccordo tra la normativa fiscale (eventualmente penale) e quella dell’affitto a fini turistici.

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